Primo capitolo lie4me

Prologo

Il vigile mi ha puntato. Non posso vedere i suoi occhi dietro gli occhiali Rayban, ma ormai conosco tutti i segnali che precedono la richiesta di accostare. È in piedi sul ciglio della strada, più tronfio che mai, con la mascella inclinata verso l’alto, una mano sul fianco e l’altra che sta per alzare la paletta con la stessa enfasi strafottente con cui i cowboy dei vecchi film western estraevano la pistola.
L’ho sempre detto che gli agenti della polizia municipale italiana hanno guardato troppi telefilm americani: si credono tutti dei novelli Starsky e Hutch, o dei guardaspiaggia di Baywatch; pensano di essere fighissimi e si mettono pure in posa, mentre, da veri rompiscatole professionisti, ti fanno perdere tempo quando proprio non te lo puoi permettere. Sono già in ritardo per l’appuntamento della mattina e non voglio rischiare di perdere un cliente facoltoso solo perché ho premuto un po’ troppo sull’acceleratore. Nel mio lavoro l’apparenza è tutto, e un ritardo non fa mai buona impressione.
Perciò, mentre il vigile alza la sua paletta, io estraggo rapidamente dal vano oggetti la mia pancia finta in lattice ripiegabile – comprata su internet a un prezzo stracciato – , la sistemo di soppiatto sotto la maglia e poi accosto.
«Signorina, su questa strada il limite è di cinquanta chilometri orari, mentre lei andava almeno a novanta!» mi accusa con arroganza, guardandomi come se fossi una cretina incapace di leggere il contachilometri.
«Si tratta di un’emergenza, agente: ho le contrazioni e sto andando in ospedale per un controllo. Sono solo al sesto mese di gravidanza, e tra il dolore e la paura non mi sono accorta della velocità a cui viaggiavo.» Per maggiore effetto stringo i denti e gli occhi, come se stessi provando un dolore lancinante, poi modulo la voce per proiettare affanno. «Devo correre al Pronto Soccorso.»
Il vigile scatta subito in modalità Cavalier Servente. «La scorterò con la mia moto, signora, così potrà evitare il traffico.»
Accidenti. Gli ho dato una missione da compiere e ora deve portarla a termine per provare la sua virilità sul campo. Provo a distoglierlo dall’obiettivo, facendo leva sulla sua vanità. «No, no, non si disturbi, la prego! Io riesco a guidare senza problemi e mi sentirei in colpa, se la distogliessi dal suo dovere civico. I cittadini di Milano hanno bisogno di lei qui, o con questo traffico potrebbero rimanere imbottigliati.»
Lui riflette sulle mie parole, poi annuisce. «Lasci almeno che fermi il traffico su questa corsia, così potrà arrivare all’incrocio più in fretta.»
«Grazie mille, lei è davvero un angelo.»
«Si figuri, signora, dovere.» Si mette sull’attenti, impugna la fedele paletta – chissà se la chiama colt fra sé e sé – e, per la felicità degli automobilisti in transito sul viale, blocca le macchine che sopraggiungono.
Io non perdo tempo. Parto sgommando e, giunta all’incrocio, anziché svoltare a sinistra verso l’Ospedale San Raffaele giro a destra, verso il mio ufficio. Spero che il vigile non abbia notato la manovra e capito il mio gioco, ma, se anche l’avesse fatto e ricordasse il mio numero di targa, questa mattina ho preso in prestito la Chevrolet Aveo del mio ragazzo, perciò non potrà risalire a me.
Sorrido soddisfatta e accelero ancora.

1

Il diavolo inventò le bugie, ma dimenticò di registrarne il brevetto,
così ora soffre la competizione.
Josh Billings

Mi chiamo Alice Schiano, ho trentatré anni e sono due le cose in cui sono brava: mentire e convincere gli altri a fare ciò che voglio. Questo però non fa di me una bugiarda manipolatrice, assolutamente no; sono solo una seria professionista che sa fare bene il proprio lavoro: l’accomodatrice di vite.
Non è un mestiere comune, ma d’altronde in tempo di crisi per trovare lavoro, bisogna inventarselo. Io l’ho fatto e il successo mi ha arriso. Spiegarvi cosa fa un’accomodatrice è molto semplice: risolvo i problemi della gente, semplificando le loro esistenze. Avete un problema? Mi chiamate e io ve lo risolvo in cambio di una modica cifra per i miei servigi.
Ovviamente non mi occupo di qualunque tipo di problema. Non chiedetemi di prestarvi dei soldi, per esempio. Per quello esistono le banche e gli strozzini, io al massimo posso chiedere in vostra vece un prestito a terzi. Sono un asso nel convincere genitori e nonni a essere più generosi con figli e nipoti.
Non chiedetemi di venire a letto con voi. Per quello ci sono le escort, basta pagare. Posso aiutarvi a sedurre una donna, ma se avete un’urgenza, non garantisco successi immediati.
Non chiedetemi neppure di mentire ai politici, perché sono fuori dalla mia portata. I bugiardi professionisti sanno riconoscere i loro simili alla prima occhiata.
A parte queste tre eccezioni sono al vostro completo servizio, ma vi avverto che sono molto richiesta. Il che significa che dovrete fissare un appuntamento tramite la mia segretaria, l’implacabile Giulia Veghini, una bionda di ghiaccio, sempre in tailleur pantalone nero, con i capelli raccolti in uno chignon e occhialini dalla montatura nera poggiati sulla punta del naso stretto e affilato. Ha solo venticinque anni, ma ne dimostra almeno otto di più sul lavoro, è incorruttibile e con il suo sguardo d’acciaio è in grado di zittire anche i clienti più difficili. Nessuno osa contraddirla, persino io fatico a tenerle testa, ma sono pur sempre il suo capo e devo farmi valere, anche se al momento sono alquanto intimorita davanti all’occhiata di sdegno che mi sta lanciando.
«Edoardo ha già chiamato tre volte, stamattina. Ti ha cercata sul cellulare, ma tu non rispondevi. Ti ricordo che mentire o trovare scuse non scuse non fa parte del mio lavoro, ma del tuo. E sei in ritardo per l’appuntamento delle undici. Il cliente ti aspetta già da dieci minuti.»
«Grazie, Giulia. Cosa farei, se non avessi te a ficcare il naso nella mia vita privata?» ribatto, caustica.
«Ah, io ne farei anche a meno, ma la tua vita privata sembra decisa a interferire con la mia vita lavorativa. Probabilmente perché tratti gli uomini con cui esci come se fossero tuoi clienti» replica lei, senza nemmeno alzare lo sguardo dal monitor del computer.
«Non è affatto vero!»
«No? Allora perché non sanno mai dove ti trovi o cosa stai facendo? Alcuni nemmeno hanno idea del lavoro che fai. Sei talmente abituata a mentire, ormai, che non sei più in grado di essere sincera con nessuno.»
Incrocio le braccia sul petto e difendo a spada tratta la mia posizione. «Tu sai sempre dove sono.»
«Solo perché leggo la tua agenda e prendo i tuoi appuntamenti.»
Giulia ha sempre la risposta pronta, ma per fortuna io non sono da meno. Mai mostrare debolezze. Bisogna sempre portare avanti la propria versione dei fatti, per quanto gli altri tentino di smontarla.
«E poi dico sempre tutto a Edoardo. Abbiamo un bellissimo rapporto.»
La mia segretaria mi guarda da sopra le lenti; i suoi occhi fin troppo perspicaci sembrano raggi laser. «Davvero? Allora perché quel poverino continua a telefonare, lamentandosi che non riesce mai a mettersi in contatto con te? Sono tre giorni che non ti vede, anche se, in teoria, ieri sera dovevate uscire a cena insieme per festeggiare la tua vendita di una casa di lusso. Crede che tu sia un agente immobiliare, Alice!»
Accidenti alla boccaccia di Edoardo, è sempre pronto a lamentarsi dei suoi guai con chiunque. «Avrà capito male… Forse, per spiegargli il mio lavoro, gli ho raccontato di un caso legato a una proprietà immobiliare e lui ha frainteso. Sai bene che gli uomini tendono sempre a credere ciò che fa loro comodo.»
«Non devi giustificarti con me, la mia era solo una considerazione amichevole.» commenta lei facendo spallucce, come se non mi avesse rimproverato fino a tre secondi prima!
Questa volta sono io a lanciarle uno sguardo di fuoco. «Sì, come no, e io sono Madre Teresa di Calcutta. Sarà meglio che ora vada dal cliente che mi sta aspettando.»
Né la mia espressione, né la mia frecciatina scalfiscono minimamente la corazza di Giulia, che, come sempre, deve avere l’ultima parola. Non faccio neppure in tempo ad avviarmi lungo il corridoio che porta al mio ufficio che mi raggiunge la sua voce «Magari, se non ti è di troppo disturbo, chiama Edoardo prima di sera. Non vorrei dovermi sorbire altre sue telefonate.»
Non ho tempo per intavolare una delle nostre solite discussioni, sono troppo in ritardo, perciò non controbatto e mi limito ad abbandonare il campo di battaglia totalmente sconfitta. Ma mi brucia. Se non fosse una segretaria così efficiente, giuro che l’avrei già licenziata. Si impiccia costantemente dei miei affari e non esita a sputare sentenze riguardo al mio comportamento o alle mie scelte di vita. Edoardo e io abbiamo una relazione perfetta, senza complicazioni di alcun genere. Io ho il mio appartamento, lui il suo, io la mia vita, lui la sua. Senza che le due si debbano mescolare troppo. Quando va bene a entrambi ci vediamo e stiamo insieme, godendo della reciproca compagnia. E se invece voglio starmene per conto mio, lui non mi stressa, né mi fa troppe domande. O almeno, era così fino a poco tempo fa. Da qualche mese ha iniziato a volerne sapere di più sulla mia vita e sembra desiderare un impegno più serio. All’improvviso la settimana scorsa a cena se ne è uscito con: e se andassimo a convivere? Io ho evitato di rispondergli, cambiando argomento, ma non posso procrastinare in eterno.
Ho trentadue anni, ormai e, se voglio farmi una famiglia, devo iniziare a darmi da fare. Il problema è che non sono sicura di volerne una. Se c’è una cosa che i miei genitori mi hanno insegnato, è che vivere insieme richiede un grosso sforzo, fatto di cecità selettiva e bugie quotidiane. Il che, nel mio caso, significherebbe non smettere mai di lavorare! Non avrei mai un attimo di riposo in cui abbassare la guardia. Un vero incubo. E in fondo la mia vita mi piace così com’è: adoro la mia indipendenza, la possibilità di disporre del mio tempo come voglio e soprattutto non dover costantemente compiacere qualcuno anche a casa.
Edoardo è attraente. Mi lascia i miei spazi. Ha un buon lavoro – fa il grafico pubblicitario – e uno stipendio sicuro. Insomma, sarebbe un ottimo partito, ma nemmeno lui vale la fatica che una famiglia significherebbe. Devo solo trovare il modo di convincerlo che il nostro rapporto non ha bisogno di cambiare, perché è già perfetto così com’è. E dovrei riuscirci senza problemi, dopotutto sono bravissima a convincere le persone, non faccio altro tutto il giorno!
Ora che ho un piano per risolvere il problema Edoardo, è il momento di concentrarmi sul lavoro e dedicarmi ai miei clienti. O ai miei salvadanai, come adoro chiamarli fra me e me, visto che pagano profumatamente per i miei servigi.
Quello delle undici è un cliente che sta molto a cuore sia a me che al mio portafogli, dal momento che il caso ha richiesto un prolungato impegno alla mia agenzia e che quindi il conto alla fine sarà piuttosto salato. Non che la cosa importi più di tanto alla cliente in questione, dal momento che se lo può permettere senza alcun problema. Infatti si tratta della signorina Derna Maria Capilupi, figlia trentenne di un famoso medico di Milano. La donna è abituata a un tenore di vita piuttosto alto e aspira a sposare un uomo che la possa mantenere, assicurandole lo stesso benessere. Alta, bionda, anche se tinta, e modellata dai più rinomati chirurghi plastici, fa la sua figura, ma non è ancora riuscita ad accalappiare la preda che ha puntato: il milionario Antonio Ferri, rampollo della Milano Bene, figlio e unico erede del colosso dell’industria tessile Arrigo Ferri. I due si frequentano ormai da un anno, ma il caro ragazzo, pur avendo raggiunto la soglia dei quarant’anni, non sembra deciso a prendere moglie.
Ed è qui che entro in scena io: devo convincerlo a sganciare la fatidica proposta. Impossibile, direte voi. Ma sbagliereste, poiché io non conosco la parola impossibile. Non fa proprio parte del mio vocabolario.
Non appena entro in ufficio, la cliente mi abbraccia con entusiasmo avvolgendomi in una nuvola di costoso profumo. «Signorina Schiano, sono così felice che sia arrivata! Sono tutta un fascio di nervi. Davvero riuscirà a convincere Antonio? Ne è certa?»
«Senza alcun dubbio, signorina Capilupi. Nelle ultime settimane abbiamo gettato le basi per il colpo finale di oggi, e la pressione esercitata su di lui è molto forte. Vi vedete da tempo, le vostre famiglie si guardano favorevolmente l’un l’altra e la mia agenzia ha fatto in modo che lui sentisse soltanto cose belle sul suo conto. Ogni cliente, conoscente o estraneo che ha incontrato nell’ultimo mese non ha fatto che tessere le sue lodi. A questo punto non manca che mostrargli l’istinto materno di cui lei è dotata e il gioco sarà fatto. Gli do al massimo una settimana di tempo, e poi se lo ritroverà davanti in ginocchio, garantito. Ma ora ripassiamo un attimo il ruolo che dovrà interpretare oggi pomeriggio. Ha capito tutto? Il dossier che le abbiamo mandato era chiaro?»
Derna giocherella nervosamente con una ciocca dei capelli biondo platino, arrotolandola sull’indice. «Sì, era chiarissimo e mi sono allenata per la mia parte… Spero solo di non lasciarmi prendere dal panico all’ultimo minuto.»
Trattengo un sospiro di esasperazione. Devo mostrarmi comprensiva. Per lei fingere di essere ciò che proprio non è deve essere stato terribilmente faticoso. Non ci è abituata. Dimostrarsi caritatevole, generosa e premurosa quando tutto ciò a cui anela nella vita è lo shopping, probabilmente la infastidisce quanto un’orticaria alla zona bikini. Le rivolgo un sorriso incoraggiante. Da buona accomodatrice di vite devo mettere a proprio agio il cliente, non solo per il suo bene, ma anche per il mio. Oggi Derna dovrà portare a termine il proprio compito in modo impeccabile, o rischierà di rovinare tutto il mio duro lavoro. E questo proprio non posso permetterlo.
La faccio accomodare sul divanetto in pelle nera di fronte alla mia lucente scrivania di metallo cromato e vetro. Sono orgogliosa del mio ufficio: non solo è spazioso e situato in un palazzo di pregio del centro di Milano, ma l’ho anche arredato con mobili di classe e terribilmente costosi proprio nella speranza di attirare ricchi clienti come Derna. Trovarsi in un luogo lussuoso, come quelli a cui è abituata, dovrebbe aiutarla a rilassarsi.
Persino la porta d’ingresso alla mia agenzia, con la semplice targa dorata che riporta discretamente solo ‘Alice Schiano’ e la carica di ‘Accomodatrice’, come fossi un architetto o un notaio, è stata studiata per mettere a proprio agio i nostri assistiti e rassicurarli del fatto che si stanno rivolgendo a un vero professionista. I miei biglietti da visita poi, non riportano neppure il mio nome, ma solo quello dell’agenzia, L.F.M., con il numero di telefono, proprio per mantenere il più stretto riserbo sulla natura del nostro lavoro e garantire la massima privacy ai nostri clienti. Facciamo ogni cosa per metterli a proprio agio e spingerli a tornare da noi, è così che si costruisce un business di successo. Perciò all’occorrenza so come motivare e tranquillizzare chiunque.
«Non si preoccupi, se la caverà benissimo. Si concentri sul motivo per cui sta facendo tutto questo: avere bene in mente l’obbiettivo finale è il primo passo verso il successo.»
La donna annuisce e io continuo a sorriderle. Probabilmente, come me, sta pensando alla barca di soldi che otterrà se riuscirà nel suo intento… e non c’è nulla come il denaro per calmare i nervi.

Il piano è collaudato, un classico per la nostra agenzia. Gli uomini sono creature semplici e non occorre poi molto per spingerli dove si vuole. Derna Capilupi è giovane, bella, ricca e Antonio Ferri se la porta a letto da mesi; basterà dargli giusto una spintarella per fargli capire che, primo, ha bisogno di una moglie, e secondo, Derna, che tra l’altro è già lì a portata di mano, è la donna perfetta per quel ruolo. Per questo, nelle ultime due settimane abbiamo fatto in modo di ricordargli che il tempo passa e che lui non è più giovane come un tempo.
Una lauta mancia al maestro di tennis del suo club, ha fatto in modo che lo stracciasse in ogni match e costringesse Il povero Ferri a correre come un ossesso da una parte all’altra del campo, finendo per forza con l’inciampare nei lacci delle sue Nike, sabotate ad arte da un inserviente della palestra che frequenta, così da procurargli una dolorosa storta che ha permesso a Derna di dimostrare le sue doti da infermiera.
Altri euro hanno oliato le mani del suo parrucchiere di fiducia affinché facesse comparire nella chioma corvina del suo cliente diversi capelli bianchi, e diverse comparse, debitamente istruite da me e infiltrate tra i clienti e conoscenti del ricco magnate dell’industria, hanno spesso rimarcato come lo vedessero stanco e invecchiato.
Tutto questo è servito per far riflettere Ferri sul proprio futuro e fargli capire che gli occorre qualcuno con cui trascorrere la vecchiaia, qualcuno che si prenda cura di lui. Quello che invece accadrà oggi, lo deve convincere che gli occorre anche qualcuno con cui mettere su famiglia.

Qualche ora più tardi mi trovo sul tetto del grattacielo più alto di Corso Venezia, stesa su uno dei lettini che circondano la meravigliosa piscina panoramica dell’esclusivo Sport Village Club, e mi sto godendo una vista spettacolare della città di Milano. Sotto un prendisole arabeggiante che mi copre da capo a piedi indosso la mia pancia finta e, vicino a me, che gioca con la Nintendo DS, c’è Lucas, sette anni anni, figlio della sorella di Giulia e nostro collaboratore part time per le missioni che richiedono la presenza di bambini.
Derna, in un bikini ridottissimo che mette in mostra tutte le sue grazie, si rilassa in una delle vasche idromassaggio, mentre Antonio Ferri è al bar a sorseggiare una birra chiara. Tutte le pedine sono al loro posto. È il momento di dare inizio ai giochi.
Faccio un cenno a Lucas, che prontamente inizia a piangere con urla degne della sirena di un’ambulanza. «Mamma! Voglio la cocacola! Voglio la cocacola, voglio la cocacola!»
«Ne hai già bevute tre, oggi. Adesso basta, o salterai sui muri.»
«Voglio la cocacola! Voglio la cocacolaaaaaaaaaaaaa!»
Si butta a terra e inizia a battere i pugni sul patio. Meriterebbe un Oscar per l’interpretazione.
Alzando gli occhi al cielo, fingo di arrendermi e lo conduco al bar. Mi siedo di fianco a Ferri, ordino la bibita per il mio figlioletto e gli compro anche un sacchetto di caramelle per farlo stare buono. Poi mi giro verso il mio vicino di sgabello e gli lancio uno sguardo di scuse. «Bambini!» commento, sorridendo e accarezzandomi la pancia. «Sono tutta la nostra vita, anche se a volte ci fanno impazzire. Non vedo l’ora che nasca questo, così Lucas avrà un fratellino con cui giocare.»
Ferri mi sorride. «Ha veramente un bel bambino.»
«Grazie. È la luce degli occhi del padre. Vedesse quando torna dal lavoro quante feste gli fa! E poi passano la serata insieme davanti ai videogiochi. Sono così teneri e felici…» Emetto un sospiro di orgoglio misto a soddisfazione. «Lei ha figli?» gli chiedo, interessata.
Lui scuote il capo. «No.»
«Oh, ma dovrebbe! Cambiano la vita, e assolutamente in meglio!»
Lucas si avvicina a Ferri e gli lancia un sorriso adorabile, appoggiandosi contro di lui come un cucciolo in cerca di affetto. Questo bambino ha davvero un futuro nel cinema, penso, ammirata. Poi viene da me e mi abbraccia. «Ti voglio bene, mamma.»
Ricambio l’abbraccio. «Anch’io, piccolo mio.» Un attimo dopo sgrano gli occhi, fingendo sorpresa, mentre mi giro a guardare Derna nella vasca. «Oh! Guarda Lucas, c’è Derna! Vai a salutarla.»
Lucas corre da lei e io torno a parlare con Ferri. «Derna è una cara amica di famiglia» spiego, «e ogni tanto fa da babysitter a Lucas per noi. Ci sa davvero fare con i bambini, ed è così dolce!»
In quel momento, Lucas inizia a tossire e poi lo vedo smettere di respirare. Il suo volto è paonazzo e ricoperto di sudore, mentre mi guada terrorizzato. Corro verso di lui, in preda al panico. «Lucas! Oh mio Dio! Cosa ti succede?»
Lui si tiene la gola con le mani e strabuzza ancora di più gli occhi.
«La caramella! Gli si è fermata in gola!» grido, allarmata, girandomi a fissare disperata gli ospiti del club, in cerca d’aiuto.
Derna ci raggiunge subito e senza esitare esegue con maestria la manovra di Heimlich, esercitando una decisa pressione sul diaframma e liberando le vie aeree di Lucas che, finalmente, può riprendere a respirare.
«Oh, Derna, gli hai salvato la vita!» esclamo con gli occhi pieni di lacrime, abbracciandola. «Sei stata fantastica, una vera eroina» aggiungo, e poi mi stringo al petto Lucas.
Anche Antonio Ferri si avvicina per congratularsi con lei. «Bravissima, davvero. Non credevo sapessi eseguire quella manovra. E che prontezza di spirito, che sangue freddo!»
Derna è un fulgido esempio di umiltà quando gli risponde: «Ho frequentato alcuni corsi di primo soccorso. Credo fermamente nel dovere di aiutare gli altri, quando si può, e poiché spesso faccio da babysitter ai figli dei miei amici, era importante che fossi preparata a qualsiasi evenienza.»
«Sei un angelo» mi complimento ancora, asciugando con la mano le lacrime che mi son fatta salire agli occhi fissando il sole intenso. Sono la gratitudine fatta a persona, mentre Derna è la modestia incarnata.
«Oh, non è stato nulla di speciale.» insiste.
Ferri le circonda le spalle con un braccio con fare possessivo. «No, Derna, la signora ha ragione, sei stata fantastica. Sono orgoglioso di te.»
Lucas si unisce al coro. «Ti voglio bene, Derna.»
«Anche io, piccolino» sussurra lei, commossa. Si abbracciano e, con Ferri dietro di loro, sembrano già un quadretto familiare. È fatta.
Dopo i saluti di rito e gli ultimi ringraziamenti, porto via Lucas e lo riaffido a sua madre, che ci aspetta giù all’ingresso del grattacielo.
Valeria, la sorella di Giulia, è una mamma di ferro con lo stesso caratterino della mia segretaria, e infatti la prima cosa che mi chiede è: «Si è comportato bene?».
«Sì, è stato bravissimo, come al solito. Avresti dovuto vedere come ha recitato la sua parte! Tratteneva solo il respiro, ma sembrava che stesse soffocando davvero. Un’interpretazione da professionista.» Tiro fuori il portafogli, sorridendo, mentre ci allontaniamo verso il metrò. «Ecco qui il suo compenso; aggiungilo al bottino del suo salvadanaio.»
Valeria accetta il denaro, ma storce il naso. «Sai che non mi piace incoraggiarlo a mentire. Finora ho permesso che partecipasse alle vostre sceneggiate per aiutare mia sorella che, visto il caratteraccio che si ritrova e la pessima abitudine di dire sempre ciò che pensa, non riesce mai a tenersi un lavoro per più di un mese, ma è stata l’ultima volta. Ormai è tempo che Giulia cammini con le proprie gambe. Lavora per te da un anno, ormai, e se l’hai sopportata per dodici mesi suppongo che tu sia diventata immune dalla sua linguaccia e che la terrai con te anche se Lucas non collaborerà più con voi. Come madre ho il dovere di far sì che mio figlio abbia chiari i concetti di giusto e sbagliato, e se continuasse ad aiutarti con quali principi crescerebbe?»
«Ma mamma, è divertente!» si lamenta Lucas. «È come recitare in televisione, solo che invece di essere il nipote di nonno Libero, sono il complice di una truffatrice! È forte!»
«Lucas, noi non truffiamo la gente, ci limitiamo a… ad abbellire la realtà per i nostri clienti, ecco» gli dico in un sibilo, per poi tornare a parlare con sua madre. «Visto? Sa perfettamente che è tutta una finzione. Considera le ore che dedica a noi come un corso di recitazione accelerato, che non devi pagare e che, anzi, permette a Lucas di rimpinguare la sua mancia settimanale. Credimi, Valeria, tuo figlio ha un futuro nel cinema!»
«Io voglio che sia in grado di mantenersi, quando sarà adulto, perciò diventerà avvocato o notaio, non certo un attore.»
«Meglio ancora! Per un avvocato è importantissimo saper mentire e questa è tutta esperienza.»
Valeria mi guarda disgustata. «È stata l’ultima volta» ripete, e si allontana con Lucas, che si gira a guardarmi e mi sorride, facendomi ciao con la mano, per niente preoccupato dalle parole della madre. Come me, anche lui sa benissimo che Giulia le farà cambiare idea. Caratteraccio o no, la mia segretaria riesce sempre a convincere la sorella maggiore ad aiutarla. Non so bene come faccia, dal momento che a me sembra indifesa quanto Godzilla, ma è in grado di far credere a Valeria di non sapersela cavare senza di lei.
Giulia sa bene quanto Lucas sia prezioso per la mia agenzia, e benché non sempre approvi ciò che faccio, apprezza molto la sua busta paga. Valeria non ha speranze contro di lei.

Soddisfatta di me stessa e del buon lavoro svolto, mi dirigo verso la mia auto. Okay, quella di Edoardo, ma sono particolari irrilevanti. L’ho parcheggiata lungo il viale e l’ho quasi raggiunta, quando mi accorgo di non avere le chiavi. Cavolo, devo averle dimenticate al club, vicino al lettino. Con un sospiro rassegnato, mi giro per tornare sui miei passi, quando all’improvviso sento un rumore assordante e un getto d’aria bollente mi scaglia in avanti, facendomi cadere rovinosamente a terra.
Mi rialzo, con le orecchie che mi fischiano. Davanti ai miei occhi c’è una scena terrificante: l’auto di Edoardo è distrutta e in fiamme; le macchine intorno sono parimenti danneggiate e un denso fumo nero si sprigiona dai veicoli. Anche marciapiede e strada sono segnati di nero e i vetri dei primi tre piani del palazzo sotto cui erano parcheggiate sono andati in frantumi, piovendo sotto forma di cristalli lucenti su di me e gli altri passanti. Sembra la fine del mondo. Non pare nemmeno più Milano, ma una zona di guerra. È incredibile come bastino pochi secondi per cambiare radicalmente l’aspetto di una strada. Ambulanza e vigili arrivano in tempo record, seguiti dai pompieri. Sento a malapena le sirene, ma posso ben immaginare il frastuono che hanno portato con loro e quelle luci intermittenti non fanno che rendere ancora più surreale il paesaggio che mi circonda.
Un paramedico si avvicina. «Sta bene signorina?» mi chiede sollecito.
Io, che di solito ho sempre la risposta pronta, stavolta sono a corto di parole. «Sì» gli rispondo, ma è una bugia.