Primo capitolo Vulnerable

Cory

Tutta sola nel grande mondo cattivo

Se non fosse stato per Arturo, non avrei mai capito cosa fossero realmente Renny e Mitch. E se non l’avessi scoperto, non mi sarei mai resa conto di cosa fosse Adrian. E se non avessi saputo di Adrian, non avrei mai incontrato Green. Perciò credo di dovere una buona parte della mia vita, sia gioie che dolori, a un elfo peruviano di un metro e novanta; ma Arturo non la pensava così, e cercavo di non farlo neppure io.

La stazione di servizio dove lavoravo si trovava tra Ophir e Penryn, sulla Gold Hill Road. Era arroccata in cima a un dirupo, dava proprio sulla strada ed era l’unico esercizio commerciale nel raggio di cinque chilometri. Quando, dopo il tramonto, si accendevano le luci, la struttura sembrava un sole fluorescente in un buco nero: superficiale, artificiale, una specie di patetica isola di civiltà in mezzo a ciò che era ancora, per la maggior parte, una zona rurale. Intorno alle dieci di sera, quando erano già tutti a letto, superando le pompe di benzina si potevano vedere le luci di Sacramento che illuminavano di rosso l’orizzonte, e sembrava che la città fosse una navicella spaziale aliena e che il resto del mondo fosse davvero fatto solo di querce, dell’odore di fieno appena tagliato e di concime, il cui odore era particolarmente forte in primavera. Era un odore malinconico, di quelli che ti fanno pensare: ehi… se morissi sotto quel rovo di more laggiù, prima o poi il mio corpo andrebbe in decomposizione e per un po’ si sentirebbe il tanfo nell’aria, ma alla fine diventerei parte della natura. Nessuno lo verrebbe mai a sapere. Alle vacche e ai cavalli accadeva di continuo, nelle fattorie più grandi e faceva davvero capire quanto la vita fosse fragile, e che in un modo o nell’altro Madre Natura se ne sbatteva.

Sapevo che per una donna non era sicuro lavorare di notte, ma in quel modo avevo le mattine libere per seguire i corsi universitari, e studiare era la mia priorità. Inoltre, mi faceva guadagnare cinquanta centesimi in più all’ora; cosa essenziale visto che stavo mettendo da parte i soldi per andarmene di casa. Ad ogni modo, fare il turno di notte mi permetteva di evitare la compagnia dei miei concittadini, che credevano che andare al college fosse solo una sosta prima di finire a fare un entusiasmante lavoro da operaio edile o da commessa. La mia scelta non mi rendeva popolare tra le persone con le quali ero cresciuta, ma ero convinta che alla fine ne sarebbe valsa la pena.

Non mi sentivo esposta o indifesa. Ormai ero grande e avevo un aspetto da dura, con piercing al naso, al labbro e diversi buchi per orecchio. Avevo i capelli corti pieni di gel e portavo il rossetto nero. Qualsiasi cosa per mascherare quanto mi sentivo brutta, vero? Avevo fatto diversi corsi di autodifesa e mio padre mi aveva insegnato a usare la 22 millimetri che Danny, il mio capo, teneva nel cassetto sotto la cassa. Era stata una bella occasione per rafforzare il nostro legame. Papà mi aveva detto che con una pistola in mano sembravo un’adulta, ed era molto orgoglioso della sua bambina; i miei voti scolastici non gli interessavano, ma gli brillavano gli occhi quando mi vedeva riempire di piombo un bersaglio.

Qui a Foothills, se non eri ricco la vita era uno schifo. Dopo un semestre mi sarei trasferita in un vero college… non vedevo l’ora! Così trascorrevo le notti dietro al bancone (solo di rado accarezzavo la 22 millimetri), a studiare e a scrivere temi. Avevo speso metà dello stipendio del primo anno di lavoro in un computer portatile e una stampante; non ero solo una ragazza con l’aspetto da dura, ero una ragazza con l’aspetto da dura e un piano di fuga. Se il mio bisogno di libertà non fosse stato talmente forte da bruciarmi nel petto come una reazione di fusione nucleare, pensare a quante cose affascinanti si potevano fare in piena notte, smanettando a un computer come un Beethoven strafatto di acido, sarebbe stato davvero divertente. E fu proprio in quell’atmosfera di assurdità e disperazione, che, sostenuta da Red Bull e caffeina,mi accorsi per la prima volta che molti clienti della stazione di servizio erano in realtà creature soprannaturali che entravano e uscivano dal negozio come un corteo di dannati.

E pensare che prima di Arturo, ai miei occhi erano stati semplicemente dei clienti regolari. Arturo faceva il cuoco in un’altra stazione di servizio; finiva di lavorare verso l’1:00 e arrivava da me circa mezz’ora dopo. Tutte le notti comprava un pacchetto di sigarette e sei bottiglie di birra. Era alto un metro e novanta, ma non era magro e allampanato; era perfettamente proporzionato, torace muscoloso, fianchi stretti, capelli neri abbastanza lunghi da arricciarsi sulle tempie… insomma, bello da morire. Paurosamente bello. Troppo grazioso per essere un uomo, troppo macho per essere gay. Così dannatamente bello che ci avevo messo un anno per trovare il coraggio di guardarlo negli occhi.

E poi, una fredda notte di gennaio, mentre gli allungavo il resto tenendo lo sguardo fisso sul bancone, Arturo mi sfiorò la mano di proposito e fu come se avesse superato un confine invisibile. Tutto il mio corpo venne scosso da un brivido, e ne rimasi talmente sorpresa da guardarlo negli occhi.

Mi sorrise dolcemente, rivelando incisivi incapsulati d’argento che lo rendevano ancora più attraente. E mentre lo guardavo, successe qualcosa di strano ai suoi lineamenti. I suoi occhi… diventarono più grandi e distanziati, il suo viso più affilato e triangolare.

“Come ti chiami?” mi chiese. Il suo leggero accento messicano mi fece battere forte il cuore.

“C…” Stavo per dire cazzo, nel senso di cazzo, amico, mi hai fatto prendere un colpo. Ma non volevo sembrare del tutto cretina, così feci un secondo tentativo. “Cory.” Fiuuu. A dire il vero mi chiamo Corinne Carol-Anne Kirkpatrick, ma non avrei mai pronunciato quel nome.

“Un nome carino… ma non ti chiami davvero così, no?” Appoggiò i gomiti sul bancone e si sporse verso di me; il suo viso era talmente vicino al mio che sotto gli odori della cucina sentii il profumo del suo dopobarba. Mi spaventò abbastanza da tornare lucida.

“È l’unico che avrai stanotte” gli risposi, acida come sempre, grazie al cielo. Poi ripresi a studiare il bancone. O meglio, la sua mano che accarezzava la mia.

“Sono Arturo. Ci vediamo tutte le sere, non ti sembra maleducato non guardarmi mai negli occhi?” Sembrava arrabbiato, e io non sapevo cosa rispondere. Come potevo spiegargli che ero intimidita dalla sua bellezza? Non potevo, avrei attirato l’attenzione sul fatto che sotto il trucco pesante si nascondevano cicatrici da acne, labbra eccessivamente carnose, un nasone ricoperto di lentiggini e dieci chili di troppo che giocavano brutti scherzi al mio mento.

“Mi dispiace. Non credevo avesse importanza.” Ero ipnotizzata dal suo tocco. Fissai le sue dita affusolate e ruvide come se fossero il centro del mio Universo, e il mio Universo si era espanso e contratto, come le sue dita sulla mia mano, come le ossa del suo volto. Poi Arturo mi sollevò il viso per costringermi a guardarlo negli occhi, e capii di essermi sbagliata. Il centro del mio Universo erano i suoi occhi. Non erano marroni, neri, o di un qualunque colore in accordo con la sua pelle bruna e i suoi capelli corvini. Erano verdi. Un abbagliante, vorticoso verde acqua con sfumature bronzo e rame.

“Corinne Carol-Anne Kirkpatrick,” mormorò, “ha sempre importanza.”

“Come fai a conoscere il mio vero nome?” gli chiesi, scossa da tutto; dalle sue parole improvvise, dalle sue dita sotto il mio mento, dai suoi strani lineamenti che continuavano a trasformarsi sotto i miei occhi, dai suoi occhi che non potevano essere umani.

“Me lo hai detto tu.” mi rispose sorridente. E poi se ne andò, semplicemente se ne andò e io rimasi imbambolata a fissare la sua ampia schiena che si allontanava. Senza il suo tocco mi sembrava di non riuscire a respirare. Non controllai l’orologio per una mezz’ora buona, e quando alla fine mi ripresi dallo stupore, mi resi conto che aveva mentito: non gli avevo mai detto quale fosse il mio vero nome.

Per il resto della notte mi sentii febbricitante, irrequieta, indolenzita, quasi dolorante, e quella sensazione durò fino al giorno successivo. La mattina dopo andai a lezione, ma ero distratta e il banco di legno mi sembrava terribilmente scomodo. Nonostante avessi studiato, non riuscii a partecipare alla discussione, perché la mia mente era da tutt’altra parte. Sentivo il suo nome in ogni conversazione, nel soffio del vento, nei rumori del traffico mentre parcheggiavo la mia Toyota marrone-cacca davanti a scuola. Il colore dei suoi occhi era ovunque: nell’erba dei prati, nel bronzo del tetto del teatro, nel grigio-verde della pelle della rana che stavo dissezionando. E per tutto il tempo mi sentii senza fiato.

Arrivai a sera che mi sentivo uno schifo, ma andai lo stesso al lavoro nella speranza di vederlo. Lui non si fece vivo, e il giorno dopo stavo ancora peggio; dovevo tenermi la testa tra le mani per evitare di andare di continuo in iperventilazione. Nonostante fosse sabato e non fossi dovuta andare a lezione, alle dieci di sera ero già esausta, sfinita dallo sforzo che dovevo fare per non mettermi a urlare. Mi sembrava che la mia stessa carne mi stesse torturando dall’interno.

All’1:35 c’erano cinque persone nel piccolo supermercato della stazione di servizio. Quando arrivò Arturo ero talmente felice che mi caddero di mano i soldi di un cliente, e per poco non mi accasciai a terra in lacrime. Riuscivo a respirare. Potevo sentire il profumo del suo dopobarba, e riuscivo a respirare. Un sorriso esperto gli curvava le labbra, ma quando vide il mio viso strabuzzò gli occhi. Tremando come una bambina, ordinai ai clienti di andarsene. E loro mi ubbidirono, probabilmente colpiti dall’intensità del mio sguardo e dal tono della mia voce; una ragazza aveva ancora tra le mani una lattina, ma l’avrei pagata io. Guardai Arturo negli occhi, furiosa, lanciandogli una silenziosa richiesta di liberarmi da qualunque cosa si fosse impossessata di me. Preoccupato, lui si sporse sul bancone e mi prese la mano.

“Le mie più sincere scuse” mi disse, accarezzandomi la mano. “Non mi ero reso conto che… Sei molto brava, Cory, a nascondere chi sei realmente. Non avevo intenzione di… angosciarti, con la conversazione dell’altra sera.”

Quando si allontanò, la tensione accumulata nei due giorni precedenti si sciolse di colpo. Sospirando, lo affrontai di nuovo.

“Cosa diavolo mi hai fatto?” gli chiesi, incazzata nera. “E come cazzo fai a conoscere il mio vero nome?”

Lui mi sorrise, un sorriso gentile. “Il tuo nome… questo edificio praticamente lo grida. Il tuo è l’unico cuore che batte tra le sue mura ad avere importanza. E quello che ho fatto… non è stato… volontario. A dire la verità, non sarebbe successo se dentro di te non ci fosse qualcosa di cui ancora ignori l’esistenza. A un primo sguardo non sembri suscettibile alla notte…” A quel punto si interruppe e scosse la testa, come se si stesse esponendo troppo. “Di nuovo, ti faccio le mie scuse. Ci vediamo domani, va bene?”

“Come no.” borbottai. “Cosa diavolo sei?” gli chiesi un momento dopo, prima che potesse andarsene.

“Sono un figlio della Dea” mi rispose, divertito. Che cavolo di risposta era? Ma Arturo se ne andò prima che potessi fargli altre domande, per una volta senza il solito pacchetto di sigarette e le birre; in un attimo era già sparito nell’oscurità oltre le pompe di benzina. Ero rimasta sola, e mi sentivo minuscola in quello spazio claustrofobico fatto di luci fluorescenti e frigo delle bibite. Ripensai più volte a ciò che era successo, e pensai ad Arturo. Ero innamorata di lui? Dopo un anno trascorso a fissargli le scarpe e due sole conversazioni, quella spiegazione non mi convinceva. Nonostante fossi terribilmente affascinata da lui, adesso in me suscitava sensazioni diverse, mi sembrava più… beh, uno zio, o un fratello maggiore. Sì, era bellissimo… ma adesso che era lontano, il ricordo della sua bellezza terribile e disumana si faceva sempre più sfumato, così come la tensione residua causata dalla febbre mozzafiato che mi aveva tenuta prigioniera per quasi quarantotto ore. E allora capii.

Ero stata ammaliata da un elfo.

All’inizio non riuscivo a crederci, ma quando la notte successiva rividi Arturo, mi accorsi che appariva diverso, inumano, altro. Non voglio essere fraintesa, era sempre bellissimo, se possibile ancora di più. Ma il suo naso era più affilato, i suoi magnifici occhi troppo distanziati. E più le guardavo, più le sue orecchie mi sembravano appuntite.

“Non sei umano” gli dissi schietta, una volta rimasti soli.

“Proprio no” rispose allegro. “Ti dà fastidio?”

“Com’è possibile che tu sia riuscito a passare per umano?” Mi sentivo finalmente a mio agio, non lo vedevo più come una minaccia alla mia libido nascente.

“Glamour. È una nostra capacità che ci permette di apparire diversi da come siamo realmente.”

“Nostra… nostra di chi?” gli chiesi, perché le mie domande sembravano divertirlo e perché mi lasciava fare la ficcanaso.

“Ci chiamiamo sidhe. Siamo esseri fatati.”

“Non mi sembri una fata!” Arturo era troppo mascolino per essere scambiato per una fatina delle favole.

Scoppiò a ridere. “Ho detto S-i-d-h-e, non fate. Penso che si parli di noi in qualche libro” mi spiegò, poi salutò qualcuno che lo stava aspettando fuori dalla stazione di servizio e se ne andò.

Le favole, la mitologia celtica, i romanzi di Laurell K. Hamilton… tutto cose che avevo creduto fossero pura finzione, erano invece una realtà in carne e ossa e frequentavano la mia stazione di servizio! Era incredibile, assurdo, eppure… Stando alle mie ricerche, i sidhe erano i leader degli elfi e degli esseri fatati, (quei piccoli bambini alati e minuscole donne nude che i libri di fiabe chiamano spiritelli e fate), e tra loro si potevano trovare i più grandi guerrieri, sapienti e poeti delle leggende. Erano alti, con lineamenti delicati, orecchie a punta e visi lunghi e triangolari. Proprio come Arturo. Oh sì, lui corrispondeva perfettamente a quella descrizione… occhi turbinanti compresi.

Cercai di ignorare ciò che avevo visto in Arturo e l’isteria che mi aveva attanagliato dopo le mie ricerche sui sidhe. Dissi a me stessa che mi dovevo essere immaginata tutto, avevo letto troppi libri e stare da sola tutta la notte in una stazione di servizio poteva incoraggiare certe suggestioni, ma eventualmente non potei fare a meno di notare che molti dei miei clienti erano più che umani. Quel senzatetto bassino e con le dita incrostate di sporcizia che veniva tutte le sere a comprare una bottiglia di liquore di malto? La sua pelle era davvero grigia, non solo sporca. E sotto i capelli verdi aveva un terzo occhio. Il mio capo avrebbe voluto farmi credere che fosse una specie di eruzione cutanea, ma era impossibile che un brufolo fosse così grosso!

Danny continuava a ripetermi che erano tutte stronzate, che ero solo stanca per i troppi turni di notte (su questo non aveva tutti i torti, uno studente lavoratore dorme in media quattro ore, decisamente troppo poco) e che avevo reagito così intensamente al tocco di Arturo semplicemente perché mi ero presa una cotta per lui (come se Danny sapesse qualcosa di cotte!). Ma non si trattava solo di Arturo. Troppi altri nostri clienti… cose… creature… avevano un aspetto non umano, non si comportavano da umani, e addirittura avevano un odore non umano.

Come la signora minuta e rugosa che veniva sempre in negozio a comprare i semi di girasole. Non me ne ero mai accorta prima, perché indossava almeno una dozzina di cappotti e perché puzzava, ma ebbi improvvisamente l’impressione che sotto i vestiti nascondesse un altro paio di braccia. Il suo viso era bruno e raggrinzito, e i guanti non aderivano bene alle mani, perché sembrava che la sua pelle fosse ricoperta di pelliccia. Aveva circa due dozzine di occhi (come un ragno), ma erano nascosti dal grosso cappello che indossava sempre. Sicuramente Danny avrebbe potuto darmi una spiegazione anche riguardo a lei, ma dopo la nostra ultima conversazione non gli feci più domande. Ero stufa di essere derisa. E poi, più gli parlavo di tutto questo, più anche lui iniziava ad apparire strano ai miei occhi… più basso, più grinzoso, e la sua carnagione sembrava verde, più che bruna. Deciso che era meglio che evitassi di guardalo di osservarlo più attentamente.

Più ci pensavo più la mia teoria che molti clienti fossero non umani aveva senso. I senzatetto che vedevo spesso intorno alla pompa di benzina, ad esempio, come avrebbero potuto sopravvivere in quella zona se fossero stati semplici umani? Lì intorno non c’era un posto in cui avrebbero potuto rifugiarsi dal freddo e dalle intemperie o dal caldo. Tutto ciò che di notte era possibile vedere al di là delle pompe di benzina, era una distesa di campi illuminati dalla luna e vacche addormentate. Dove avrebbero potuto mangiare e dormire queste persone, se non all’ombra dei grandi massi di granito sparpagliati sulle colline come biglie, o dei rovi di more che invadevano le proprietà abbandonate? No… erano di sicuro troll o goblin, o qualcosa del genere. Se fossero stati umani, sarebbero già morti; gli esseri umani erano fragili, non avrebbero potuto sopravvivere girovagando per i campi come storni ubriachi di bacche di acacia.

Ma non tutte le creature della notte che frequentavano la stazione di servizio erano senzatetto. C’era un gruppo di ragazzini, una decina, che avevano l’aspetto di eroinomani, si vestivano sempre di nero e indossavano gioielli gotici, ma in realtà erano gatti mannari. Venivano spesso in negozio, specialmente nei fine settimana, e spesso andavano alle feste a Folsom o a Granite Bay, dove erano tutti talmente strafatti che nessuno faceva caso a loro. Non erano poi così male a conoscerli bene, e non si drogavano tanto quanto volevano far credere. Gli andavo a genio, considerato il mio look.

Mitch e Renny facevano parte di quel gruppo. Erano nati e cresciuti qui, esattamente come me e avevano una famiglia, ma per qualche motivo avevano deciso di unirsi a quel mix soprannaturale e si erano creati una loro nicchia. Mitch era totalmente inconsapevole della sua bellezza; si muoveva con la grazia furtiva dei gatti randagi che mia madre amava nutrire e curare. La nostra era una piccola città, quindi ero a conoscenza del suo passato; tutti sapevano che era stato espulso da scuola a causa della tossicodipendenza, ma non serviva essere un genio per capire che avevano abusato di lui sin dall’infanzia. Osservava tutto di sottecchi, come se si aspettasse di venire attaccato e ferito da un momento all’altro, perché gli sembrava impossibile che le botte fossero finite. Era diffidente verso tutto e tutti, tranne Renny.

Renny aveva un anno in meno di me, ed era stata una studentessa modello ai tempi del liceo. Era risaputo che fosse innamorata di Mitch da quando prendevano insieme lo scuolabus, e che i suoi genitori l’avevano cacciata di casa quando aveva detto loro che non aveva intenzione di andare al college perché voleva restare con Mitch. Era una ragazza minuta, semplice, con capelli castani tagliati all’altezza delle spalle, un nasino aristocratico e una bocca che ricordava quella del gatto in cui si trasformava ogni volta che lei e Mitch oltrepassavano i cespugli sul retro della stazione di servizio. Quando erano in forma felina, si divertivano a scorrazzare, giocare e saltare.

La prima volta che assistetti alla loro trasformazione, finii col culo a terra per la sorpresa. E mi resi conto che non sarei mai riuscita a vederli senza il sesto senso che Arturo mi aveva fornito con quel singolo, casuale tocco. La seconda volta mi venne un groppo in gola dall’emozione. Alcune persone inseguivano per tutta la vita la felicità che quei due dimostravano quando non erano in forma umana. Forse valeva la pena di vivere ai margini, se quella era la ricompensa.

Eppure per poco non persi la mia occasione di avere tutto questo con Adrian.

Come descrivere Adrian? Da quando avevo iniziato a lavorare alla stazione Chevron, veniva in negozio circa tre sere a settimana; ero sicura che la gente del posto amasse tutto il frastuono che faceva la sua Harley, ma io semplicemente lo ignoravo. Troppo di classe per me, giusto? La prima volta che lo notai davvero, fu una settimana dopo essermi accorta che gli occhi di Arturo erano troppo distanziati e le sue orecchie appuntite. Quella notte è un ricordo indelebile nella mia mente. Mia madre mi aveva rotto le scatole tutto il giorno: pulisci la tua camera; è ora che ti trovi un ragazzo; dormi un po’, santo cielo… sembri una drogata; non sono qui solo per farti il bucato (come se glielo avessi chiesto io!); devi rinunciare a qualcosa, non puoi andare avanti così. Insomma il solito. Sapevo che le sue intenzioni erano buone, ma quando tentavo di spiegarle che ne valeva la pena, che tutte queste ore di lavoro mi servivano per potermi pagare gli studi, mi lanciava lo stesso sguardo con cui aveva mi aveva guardato insistere, all’età di dieci anni, che Babbo Natale esisteva. Non voleva deludermi o ferirmi, ma come allora aveva saputo che Babbo Natale non esisteva, ora era convinta che io non avessi uno straccio di possibilità di andarmene da quel paese di merda.

La prima volta che vidi Adrian, stavo scrivendo al computer un tema su Edgar Allan Poe per il corso di Inglese; premevo quei tasti come un’ossessa, perché avevo intenzione di prendere il massimo dei voti e dimostrare a mia madre che Babbo Natale esisteva, e che il mio regalo sarebbe stato un biglietto del pullman di sola andata per qualsiasi posto che non fosse la mia città! Era marzo, mancavano due mesi a quando avrei ricevuto il mio diploma di laurea breve in Scienze Umanistiche (che sembrava niente in confronto a una laurea specialistica, ma nessuno dei miei ex compagni di scuola ne avrebbe ricevuto uno, perciò ero piuttosto elettrizzata) e l’ultima cosa di cui avevo bisogno era che un altro semidio tipo Arturo entrasse in negozio e mi creasse dei problemi. Quindi Adrian era l’ultima persona al mondo a cui ero preparata.

Se Arturo era pieno di fascino latino e bellissimo, Adrian era… mio Dio, come posso descrivere Adrian? Era alto uno e ottantacinque (per l’amor del cielo, possibile che fossero tutti alti?), aveva un fisico atletico, e un viso perfetto dai tratti nordici, i cui lineamenti erano talmente affilati da sembrare scolpiti nel ghiaccio. I capelli, di un biondo talmente chiaro da sembrare quasi bianchi, gli incorniciavano il volto, sottili e leggeri come una tela di ragno, e aveva dei magnifici occhi blu. Blu come un cielo autunnale. Quel genere di blu che è messo in risalto dall’oro, ma che ha bisogno dell’argento per splendere di luce propria.

Veniva spesso in negozio, ogni settimana con una ragazza diversa. Era pallido e sembrava sempre teso, e malinconico, ma in un modo affascinante alla posso smettere di sembrare sofferente quando voglio. Poi scoprii che era solo una messinscena; con quell’aria da condannato, per un vampiro era più facile mischiarsi agli umani. Aveva un accento britannico e l’aspetto di chi non ha altro modo di guadagnarsi da vivere se non salassare chiunque gli offriva le proprie risorse. Indossava una giacca di pelle lucida che ben si addiceva alla motocicletta, e trattava le sue amichette come dei giocattoli che non aveva remore a gettare via una volta esaurite le batterie. Era il classico cattivo ragazzo. Era spaventoso, attraente e un po’ malvagio. In poche parole praticamente irresistibile.

Un mese prima, quando ancora Adrian non mi aveva rivolto la parola e Arturo non mi aveva fatto notare quanto fosse scortese evitare di guardarlo negli occhi, avrei sprecato tutta quella bellezza limitandomi a fissare i suoi anfibi e i suoi jeans neri attillati. Ma non volevo più essere maleducata; così una sera, quando Adrian pagò il solito pacchetto di gomme da masticare, lo guardai e gli sorrisi.

Lui si immobilizzò per un attimo, poi mi afferrò le mani e si sporse verso di me. Avrei dovuto avere paura. Avrei dovuto impugnare la pistola e puntargliela al collo, giusto? Ero una tosta. Era più di un anno che facevo il turno di notte; eravamo stati rapinati due volte, e durante una di queste avevo sparato al ladro per evitare che fuggisse prima dell’arrivo della polizia. Avrei dovuto avere paura, ma i suoi occhi erano così belli che non potevo smettere di guardarli, e ciò che mi spaventò di più fu rendermi conto che non ero terrorizzata.

Chiusi gli occhi, deglutii e, recuperato il controllo, gli sorrisi di nuovo. “Le serve altro, signore?” La mia voce era come seta su legno grezzo. Lui sbatté lentamente le palpebre, abbassò la testa e mi annusò. Dico sul serio, proprio come Hannibal Lecter annusava Clarice attraverso il vetro nel film Il Silenzio degli innocenti. Adrian avvicinò il naso al mio collo e inalò profondamente.

“Non fumi?” Era una domanda. Una domanda strana e imbarazzante, ma risposi ugualmente.

“No. Che peccato, eh? Visto il mio look, una sigaretta ci starebbe bene.” Stavo blaterando. Mi ero appena abituata ad Arturo… non credevo che quest’altra specie di divinità attaccasse bottone con me.

Lui mi annusò ancora, mi rivolse un sorriso languido, poi si allontanò un po’ e indicò con la testa la sua nuova fiamma. L’avevo già vista in giro; era una ragazza carina destinata a sfiorire dopo essersi sposata e aver messo su famiglia a vent’anni. Se non avessi fatto molta attenzione, avrei fatto anch’io quella fine. L’avevo soprannominata Ciliegina perché si vestiva sempre di rosso, ma guardandola meglio, mi resi conto che la ricordavo dal liceo, si chiamava Kim qualcosa… Anche quella sera indossava un abitino scarlatto; quel colore e le luci fluorescenti giocavano brutti scherzi alla sua carnagione, sembrava quasi verde.

“Lei fuma. Sai, non ha un buon… sapore.” disse Adrian

“Wow” commentai, rientrando nel mio ruolo da dura, ora che si era allontanato di qualche centimetro.

“Wow cosa?” mentre parlava i suoi occhi erano semichiusi, come se oltre al mio odore stesse assaporando anche le mie parole.

“È un’informazione un po’ troppo personale, considerato che non so nemmeno come ti chiami.”

Allungò una mano affusolata, più curata di quanto lo sarebbero mai state le mie. “Sono Adrian. Niente battute sul film Rocky, ti prego.”

Non volevo stringergli la mano, ma il rimprovero di Arturo riguardo la mia maleducazione mi faceva ancora venire il nervoso. Le sue dita scivolarono sulle mie, e sentii freddo e caldo allo stesso tempo, come se avessi immerso la mano in un’acqua troppo calda per una nuotata, ma perfetta per un bagno estivo.

“Cory” gli dissi.

Di nuovo quel sorriso appena accennato. “Non è il tuo vero nome, vero?”

“Si può sapere perché tutti voi avete questa strana fissazione per il mio nome?” gli chiesi frustrata. Persino i miei genitori mi chiamavano Cory, ed era stato il mio nome per quasi quindici anni di istruzione pubblica, grazie tante. E adesso quei simpaticoni soprannaturali volevano contestare la mia identità, come se i diciannove anni che avevo impiegato per costruirla non contassero un fico secco. Cory era un nome da maschio. Un nome tosto. Corinne Carol-Anne? Non mi apparteneva, era il nome di qualcuno che non avrei saputo essere.

Adrian inarcò le sopracciglia; notai che erano di un colore appena più scuro di quello della sua pelle, un’altra cosa adorabile. “Tutti voi?” chiese. All’improvviso la sua pelle diventò fredda e così la mia mano, ancora stretta nella sua. Non mi piaceva la sua voce, mi gelava il respiro in gola e mi faceva battere i denti.

“Arturo” sibilai, ed ero certa che il respiro mi fosse uscito dalle labbra irrigidite in una nuvola di condensa. “Mi ha chiesto come mi chiamo, e quando gli ho risposto ha avuto da ridire su Cory.”

La mano di Adrian si riscaldò non appena feci il nome dell’elfo. “Arturo” ripeté con voce incolore.

“Già. Viene qua tutte le sere. Ora che ci penso… vi ho visti insieme.” Quel pensiero mi fece rilassare, anche se probabilmente abbassare la guardia era un errore.

Lui lasciò cadere di colpo la mia mano e mi guardò negli occhi; mi fissava così intensamente che mi chiesi se riuscisse a vedere il retro del mio cranio. “Sì… Arturo e io siamo amici, si può dire.” Alla terza menzione del suo nome, il nostro incontro puramente platonico mi passò davanti agli occhi a gran velocità; Adrian inclinò la testa come se stesse guardando il film dei miei ricordi e leggendo i sottotitoli, così da non perdere neanche un dettaglio. Un attimo dopo (o forse un’ora dopo, un anno dopo) mi sorrise di nuovo, questa volta un vero sorriso. Dovetti sbattere le palpebre un paio di volte prima di riuscire ad accettare l’idea che i suoi canini apparivano molto, ma molto affilati. Ommioddio, mi aveva davvero letto nel pensiero? Avevo appena lasciato che un vampiro si facesse un giro nella mia mente? No, non poteva essere. Se Danny lo avesse scoperto, mi avrebbe fatto rinchiudere.

Deglutii rumorosamente. Probabilmente Adrian se ne accorse, perché arricciò le labbra in modo che potessi vedere solo le punte di quei denti incredibili. Ciliegina si avvicinò proprio in quel momento, tutta imbronciata, e gli diede un colpetto sul gomito. Lui la guardò male e lei si allontanò con l’espressione di chi sta per mettersi a piangere. Poi Adrian si concentrò nuovamente su di me, e mi fissò intensamente per un lungo attimo che sembrò non passare mai e che mi lasciò senza fiato. Buon Dio, perché gli esseri umani non sono così belli? Forse perché si riproducono già come conigli, e più bellezza servirebbe solo a peggiorare le cose? Mi formicolò tutto il corpo, anche parti di esso a cui non avrei saputo dare un nome.

Il sorriso che mi rivolse era accecante, non potevo reggere la forza di tutto quel fascino soprannaturale. “Qual è il vero colore dei tuoi capelli, Corinne Carol-Anne Kirkpatrick? E dei tuoi occhi?”

“Castani” risposi con voce stridula, imbarazzatissima. “Gli occhi, invece, sono verde fogna.” Avevo il cuore in gola, potevo quasi sentirne il sapore. Adrian si passò la lingua sui denti, come se anche lui potesse assaporare la mia paura, e sorrise di nuovo.

“Sembra… delizioso” mormorò. “Mi piacerebbe vederti al naturale.”Poi, troppo velocemente perché avessi il tempo di reagire, mi afferrò la mano e la leccò. Ansimai rumorosamente e la ritrassi.

“Non sono uno snack!” dissi, cercando di suonare arrabbiata.

Mi guardò negli occhi; i suoi erano ancora bellissimi, ma meno spaventosi. “No, Corinne Carol-Anne Kirkpatrick. Sei un bel bocconcino.” E poi se ne andò, seguito da un’infelice Ciliegina.

Il giorno dopo venne in negozio intorno alle due del mattino, senza Ciliegina. Comprò una lattina di Coca-Cola light che non bevve, e chiacchierammo per un’ora. Era difficile parlare con lui. Adrian era bellissimo, io no. Aveva un accento esotico e usava espressioni tipicamente britanniche come luv e terrific che mi facevano tremare le ginocchia, invece la mia voce era incolore, acuta, spesso stridula, il mio accento era quello tipico e banale della California del Nord e usavo espressioni datate come tipo, come no e chissenefrega. E, per rendere le cose ancora più difficili, mi guardava come se in me ci fosse qualcosa di importante di cui aveva bisogno, qualcosa che non sarei mai riuscita a identificare.

Ma gli parlai lo stesso. Gli raccontai dei miei studi.

“Non capisco” rispose schietto, quando gli dissi che volevo andarmene dalle Foothills, trasferirmi in qualche posto nuovo ed eccitante.

Stavo scrivendo un tema, e le mie dita si immobilizzarono sulla tastiera del computer. “Non ti sei mai sentito in trappola?” gli chiesi. “Non hai mai avuto la sensazione che, rispetto all’universo, la tua vita fosse solo un minuscolo granello di polvere, ma che se ti fossi impegnato e avessi combattuto avresti potuto trasformare quel granello nell’intero universo?”

Adrian fece una smorfia, e il suo viso si oscurò. Non so a cosa stesse pensando, ma in quel momento ero grata di non saperlo, perché il dolore che intravidi sul suo volto mi fece sudare le mani. “Sì” sussurrò. “Conosco la sensazione.” Poi deglutì, scosse la testa, sbatté le palpebre, e la sua espressione si rasserenò. “Ma è stato tanto tempo fa” aggiunse, di nuovo sicuro di sé. Ma io ero scossa da ciò che avevo intravisto, dal mistero che si nascondeva in lui, un lato di sé che non veniva mai alla luce di solito.

In quel momento entrarono Mitch e Renny. Avevo assistito alla loro trasformazione in gatti giganti giusto qualche sera prima, e mi aspettavo di provare repulsione ora che sapevo che non erano del tutto umani. Ma non accadde. Ciò che accadde fu che entrambi guardarono Adrian e gli sorrisero; un sorriso rispettoso, ma sincero e cordiale. E poi… beh, s’inchinarono.

E Adrian fece lo stesso.

Sono sicura che gli occhi mi schizzarono fuori dalle orbite. E a quel punto successe qualcosa di ancora più strano. Renny baciò Mitch sulla guancia, poi prese la mano di Adrian e lo condusse fuori. Li seguii con lo sguardo, e rimasi a bocca aperta quanto Adrian si fermò e si voltò verso di me. Il suo viso stava cambiando; i canini si allungarono, la sua fronte si allargò, i suoi occhi iniziarono a vorticare. Renny chiuse gli occhi, sorrise, e sollevò il mento. Erano vicini l’uno all’altra, ma non come due amanti; sembravano più due amici intimi che si stavano abbracciando. Ma poi Adrian abbassò la testa e, senza smettere di guardarmi, affondò lentamente i denti nella carne liscia e bianca del collo di Renny, iniziando a succhiare. Lei emise un gemito che sentii anche attraverso il vetro anti-proiettile, e si abbandonò tra le sue braccia, contorcendosi contro di lui senza pudore. Allungai le mani per afferrare lo sgabello; le ginocchia mi tremavano selvaggiamente e avvertivo un’orribile sensazione di vuoto tra le cosce, ma non riuscivo a distogliere lo sguardo.

“Cristo” bestemmiai. Mitch emise un suono gutturale, ferino. Con la coda dell’occhio vidi che teneva tra le mani il mazzo di fiori che era solito comprare per Renny con pochi centesimi, e guardava fuori dalla finestra con un’espressione carica di adorazione e di puro desiderio.

“È uno spettacolo, non trovi?” disse.

“Questi sono più belli” risposi automaticamente, prendendo i fiori speciali che compravo solo per loro due da sotto il bancone. Grazie al cielo avevo già tolto l’etichetta col prezzo (dicevo a Mitch che costavano pochi centesimi, anche se in realtà costavano di più e lui non se li sarebbe potuti permettere, ma trovavo l’idea che volesse sempre fare qualcosa di carino veramente dolce e mi faceva piacere aiutarlo), perché Adrian aveva quasi finito di nutrirsi, le mie mutandine erano fradice, e ancora non riuscivo a distogliere lo sguardo.

“Adoro quando beve da lei” continuò Mitch, come se fosse sollevato di poterne parlare con qualcuno.

“Come puoi…” Non riuscii nemmeno ad articolare l’ovvia domanda: come poteva guardare la donna che amava contorcersi e ansimare tra le braccia di un altro uomo?

“Quando hanno finito, Renny è eccitatissima” rispose ammiccante. “Se è per questo,” ammise, “lo sono anch’io quando Adrian si nutre da me. È una cosa da vampiri.”

Okay. Ci credevo. Dopo aver fissato i canini di Adrian per un’ora e aver assistito a quella scena, ci credevo. “Perché gli permetti di bere da te?” chiesi a Mitch con voce roca. Lui pagò i fiori, e io misi via i soldi distrattamente. A fine serata avrei avuto soldi in più in cassa, e non avrei avuto idea del perché.

“Siamo gatti mannari” rispose semplicemente. “Tutti i mutaforma rispondono ad Adrian. Ha a che fare con la trasformazione: ci ripulisce il sangue e lo sostituisce velocemente, e ciò ci rende complementari ai vampiri. Credo sia il modo in cui la Dea si prende cura di entrambi.” Sorrise, un sorriso sensuale e fiducioso che mi fece capire perché Renny si fosse innamorata di lui. “È dannatamente difficile dissanguarci. Così noi li nutriamo, e loro in cambio ci proteggono.” Mitch rivolse lo sguardo in direzione di Adrian; teneva Renny, rilassata e sorridente, tra le braccia, e stava leccando le tracce di sangue che lei aveva sul collo. La ferita si stava già rimarginando, ma era un gesto tenero, quasi fraterno, e il mio cervello stava andando in tilt nel tentativo di capire come funzionasse il rapporto tra un vampiro e il suo cibo.

“Perché… perché lui?” Dio, non riuscivo a parlare. Non riuscivo a stare in piedi. Una parte di me voleva disperatamente che Adrian mi toccasse proprio in quel modo. Ma un’altra parte di me era convinta che se mi avesse toccato, in qualunque modo, sarei morta.

“Perché è il nostro leader” disse Mitch, come se quello spiegasse ogni cosa. Poi sorrise in modo dolcissimo e corse fuori; prese Renny tra le braccia, fece un inchino frettoloso ad Adrian, e si precipitò alla macchina. Dopodiché, immaginai, si sarebbero fiondati a casa per accoppiarsi come conigli.

Dopo che se ne furono andati, Adrian mi guardò con un misto di desiderio e paura. Ricambiai il suo sguardo, probabilmente con la stessa espressione negli occhi, poi lui si girò e scomparve nella notte.

Trascorse una settimana. Poi un intero mese. Arrivò il giorno in cui di solito facevo la tinta ai capelli, ma lo lasciai passare senza colorare la mia chioma. Arturo veniva a trovarmi tutte le notti e, a orari diversi, veniva anche Adrian.

Mi diceva sempre qualcosa di carino, ogni dannatissima volta. Spesso cercava di fare conversazione, di farmi parlare della mia famiglia, dei miei sogni. E a volte, quasi sempre a dire la verità, funzionava e andavamo avanti per ore, ma la cosa mi rendeva nervosa. Sapevo che aspetto avevo. Sapevo chi ero. Ero una ragazza comune, non particolarmente bella. La mia intelligenza era nella media, la mia famiglia non era benestante ed ero cresciuta in provincia. In me non c’era nulla di esotico. Non avevo mai viaggiato. Tutto ciò che sapevo l’avevo imparato dai libri, e la mia immaginazione era talmente labile che non mi ero accorta di un elfo altissimo fino a quando non mi aveva ammaliata. L’unica possibilità che avevo di diventare una persona interessante era andarmene dalla Sierra Foothills e scoprire cosa c’era al di là del mio piccolo mondo. Come non avevo intenzione di darla a nessuno dei ragazzi che venivano in negozio di tanto in tanto solo per vedere se ero una facile, allo stesso modo non avrei certo permesso a qualcuno che aveva fatto e visto molto di più di ciò che io avrei mai potuto fare o vedere, di convincermi che vedeva in me qualcosa di speciale. Se lo avessi fatto, sarei stata risucchiata in quel mondo piccolo e insignificante dal quale stavo lottando per uscire. Perciò una sera gli dissi chiaro e tondo che con me non aveva alcuna possibilità.

Lo avevo visto qualche ora prima azzuffarsi giocosamente con un altro elfo che tentava di passare per umano. Ci sarei cascata, ma qualcosa nel modo in cui Adrian lo teneva stretto, qualcosa nel modo in cui i due si toccavano, catturò la mia attenzione. In un battito di ciglia, l’acconciatura orribile dell’altro uomo scomparve, così come le severe rughe che gli incorniciavano la bocca; e, nonostante non avessi visto bene il suo viso, sapevo che la sua carnagione era dorata, aveva una cascata di capelli color onice che gli arrivava fin quasi alle ginocchia.

E il modo in cui si toccavano… era quel modo rude, carico di testosterone tipico degli uomini sicuri di loro stessi. Ma c’era dell’altro. Mi ricordava Adrian che beveva da Renny, Adrian che beveva da Mitch. Era un tocco informale, consapevole, dolcemente intimo. Quei due si conoscevano bene, ed erano stati spesso insieme. Deglutii forte, e aspettai che la consapevolezza che Adrian fosse andato a letto con quell’uomo distruggesse il desiderio nascente che era cresciuto nel fondo del mio stomaco da quando era entrato per la prima volta nella stazione Chevron.

Non successe.

Invece, l’idea che Adrian avesse mantenuto una relazione che era durata più di una settimana e continuava tutt’ora con rispetto e ammirazione, fece germogliare la mia scomoda attrazione dal fondo delle mie costole. E con l’attrazione arrivò la gelosia.

Li guardai, combattendo i crampi che mi attanagliavano lo stomaco, mentre il suo amico mi guardava e rivolgeva un’occhiata interrogativa ad Adrian, che gli rispose annuendo sorridente. L’elfo mi guardò di nuovo, i suoi occhi si spalancarono e poi sparì di colpo. Voglio dire, in un battito di ciglia era sparito. Avevo avuto ragione, cercando di controllare la mia rabbia e la mia confusione, non era decisamente umano.

“Era Green?” chiesi bruscamente ad Adrian quando entrò. Lo menzionava spesso: “devo chiederlo a Green” o “Green mi ha detto” erano frasi che spuntavano frequentemente nelle nostre conversazioni come un nome tipo “Steven Spielberg” sarebbe sempre stato sulle labbra di tutti sul set di un suo film. Green era importante. Green era la persona a cui Adrian doveva rispondere, a cui guardava, per cui provava lo stesso tipo di ammirazione mista a rispetto che tutti i mutaforma e i vampiri provavano per lui. Probabilmente se avesse continuato con questa sua fissazione nei miei confronti, Green sarebbe presto comparso ad esaminarmi, per confermare che io fossi degna del loro Adrian.

Si sorprese della mia domanda. “Assolutamente no” disse, scrollando le spalle. “Quello è Bracken, un mio amico.” Dovetti riflettere su quella frase per un attimo, poiché avevo visto coi miei occhi e attraverso quel nuovo senso che mi aveva regalato il tocco di Arturo, che la parola amico assume un nuovo significato se attribuita a loro due.

“E Green?” chiesi, sempre cercando di capire quale posizione avesse Adrian nel mondo.

“Green è più di un amico” disse, disorientato. Nei suoi occhi potevo leggere la venerazione che provava per il suo eroe. “Green è il mio salvatore, la mia resurrezione, la mia redenzione. Niente Green, niente Adrian, ok?”

Deglutii forte. Non era proprio come mi sentivo io? Niente laurea, niente Cory? Sarei semplicemente sparita, sarei rimasta la commessa di un distributore senza nome per il resto della mia vita? “Ci dev’essere di più in noi” sussurrai, reprimendo il desiderio di toccarlo. “Deve esserci.”

Ci fu un momento di calma, al distributore, che non piacque a nessuno dei due. Adrian era entrato felice, e io l’avevo accolto da stronza, e ora nessuno di noi sapeva come comportarsi.

“Li stai facendo crescere” disse dopo un momento, tirando fuori un sorriso dal mio sussurro spaventato. Poi accarezzò le punte dei miei capelli orribili con le sue dita pallide. “Stai bene, tesoro.” E, stranamente, gli credetti, credetti al fatto che le punte nere e la strana ricrescita dei miei capelli fossero veramente meglio della tinta. Avrei dovuto capire in quel momento che ormai ero perduta, ma io non era da me arrendermi facilmente. “Scommetto che anche i tuoi occhi sono adorabili” disse, sollevandomi il mento con un dito e cercando di capire di che colore fossero. I miei occhi avevano un colore paludoso, come la piccola cava vicino a casa nostra in primavera. Nemmeno mia madre era mai riuscita a capire di che colore fossero. Voltai il viso dalla sua bellezza da cielo autunnale e non glieli feci guardare. In ogni caso, non avevo più messo le mie lenti a contatto colorate di nero da giorni.

Era la notte dell’inventario e io stavo contando i Cheetos, così ebbi una scusa per fissare la mia cartellina ed evitai i suoi occhi. Dal canto suo, Adrian non me la fece passare liscia. Ovunque guardassi, di lato, verso la cartellina o le mie scarpe, Adrian era lì: dita sul mio collo, mano sulla mia spalla, e i suoi stupendi occhi sempre puntati su di me. “Vai via, Adrian, ti prego” dissi dopo un momento. “Quando avrò finito con questo dovrò scrivere una tesina.”

Lui fece scoppiare il chewing-gum tra i suoi canini incredibilmente affilati, il che non doveva essere un’impresa facile. “Perché fai questo, Corinne Carol-Anne?” mi chiese un momento dopo. “C’è il mondo intero fuori dai tuoi libri.”

“Già, e mi piacerebbe vederlo un giorno. La scuola è il mio biglietto per andarmene.” Senza guardare potevo rendermi conto che Adrian si era spostato dietro di me, così vicino che potevo sentire il suo fiato sul collo. Profumava di gomma da masticare e pelle e qualcosa tipo rame che non riuscii a inquadrare… e anche un po’ di gatto mannaro e colonia da uomo. Urrà per Adrian.

“Non intendevo questo” disse scuotendo la testa. “Vedo studenti di continuo, usano i libri per aprire le porte verso il mondo, non per chiuderlo fuori.” Mi toccò i capelli mentre parlava, e io giurai a me stessa di tingerli appena tornata a casa. Avevo una varietà di sentimenti che mi vorticavano nello stomaco come farfalle, e mentre abbassavo la cartellina e guardavo Adrian negli occhi, mi resi conto che il sentimento prevalente era la rabbia.

“Forse il mondo si aspetta di più da quelle persone che non da me.” Feci una scatto e mi girai di nuovo per finire il mio inventario.

“Beh, allora hai bisogno di trovare qualcuno che voglia regalarti il mondo intero, piccola” disse Adrian, e suonò così plausibile, così dolce che volevo mettermi a piangere.

“Cosa ci fai qui con me, Adrian?” chiesi, incontrando il suo sguardo. Ero avvilita non ero neanche abbastanza intelligente da andare al college, o almeno così i miei genitori, i miei amici e i miei insegnanti mi avevano detto, e ora quell’uomo bello come un dio diceva che potevo avere il mondo ai miei piedi se solo avessi voluto, ma che non avevo il coraggio di afferrarlo. “Intendo, davvero.” Avevo le lacrime agli occhi, e dovetti girarmi. “Tu sei bellissimo, sono sicura che l’intero Stato fa la coda per fare sesso con te, e tu sei qui con me!? Io sono troppo banale per una scopata e troppo ordinaria perché valga la pena nutrirsi del mio sangue! Cosa vuoi da me?!” Ero di poco sopra il metro e cinquanta, per me un metro e sessanta era fottutamente alto, perciò avevo fatto tutto questo discorso fissando il petto di Adrian, visto che non me la sentivo di sollevare la testa. Non importava, non credo che le scelte che feci dopo sarebbero state molto diverse se avessi visto la devastazione nel suo sguardo in quel momento. Non credo esistesse una forza nel mondo in grado di modificare le scelte di Adrian.

Ci fu ancora silenzio, e io mi sentii di merda. Questo vampiro… quest’uomo non era stato altro che gentile con me, sempre. Ero abbastanza sicura che avesse lasciato perdere Ciliegina, e probabilmente anche quell’elfo dai lunghi capelli neri, per venire in negozio a parlare con me. E io ero stata una stronza completa. Mi sentii peggio che di merda. Mi sentii un verme; Non poteva desiderarmi. Non solo ero stupida, comune e ordinaria, ero anche cattiva. Ciò che disse dopo non alleviò il mio senso di colpa.

“Come fai a sapere che non è il mondo a sbagliarsi, tesoro?” mi chiese con gentilezza, come se si stesse chiedendo la stessa cosa. “Come fai a non accorgerti che l’unica cosa che ti trattiene dall’essere straordinaria è il modo in cui vedi te stessa?”

Me ne restai lì con il cuore che mi batteva all’impazzata nel petto, chiedendomi se dovessi rispondergli. Lui era veramente un vampiro. Lo avevo visto nutrirsi. Poteva sentire l’odore del mio sangue mentre mi scorreva sotto la pelle. Una volta mi aveva detto che poteva anche sentire il mio cuore battere dall’esterno del negozio, e sapere che era il mio. Poteva veramente vedere cose in me che il resto del mondo non vedeva? O semplicemente mi serviva qualche ora di sonno in più?

Alla fine lo guardai in quegli occhi color cielo autunnale, incerta su cosa dirgli. “Scusa” dissi semplicemente, intendendo che mi dispiaceva aver detto quello che avevo detto. Non so se questo fu quello che sentì, e prima che potessi valutare la sua espressione strana e vulnerabile, entrò Arturo, con l’aria decisamente arrabbiata. Pronunciò il nome di Adrian, asciutto, e mentre si girava potei giurare di aver visto rimpianto nell’espressione del suo viso.

I due ebbero iniziarono a parlare sottovoce vicino al frigo delle birre, mentre io fissavo intensamente l’inventario come se la mia vita dipendesse da quello, ma in realtà cercavo di ascoltare ciò che si stavano dicendo. Alcune frasi mi arrivarono nonostante il ronzio della radio che tenevo sempre accesa dopo mezzanotte, sentii le parole “innocente”, “sensibile”, “potere contenuto”, “non è il tuo posto” e “non puoi usarla.” Queste venivano per lo più dalla bocca di Arturo, che dominare Adrian, per età, altezza e piglio autoritario.

Le creature della notte avevano quindi un ordine gerarchico? Se era così, lo status di Adrian stava sicuramente al di sotto di Green, e ora, a quanto pareva, anche al di sotto di Arturo. Sembrava quasi una conversazione tra studente e insegnante, o tra un capo e un assistente. Mi chiesi se Adrian sarebbe mai stato promosso a un rango più alto, e se sarei stata ancora lì a fare la commessa di quel piccolo distributore ai confini del mondo quando ciò sarebbe accaduto. O forse non si trattava affatto di qualcosa di una gerarchia legata al mondo soprannaturale, ma soltanto della solita legge della strada che seguivano le gang di strada: in cui i figli di puttana più cattivi e più amorali comandano sugli altri… Ma Arturo era sempre stato gentile con me, pensai, e anche Adrian. Ed entrambi erano chiaramente non umani…. Il discorso di Arturo doveva sicuramente contenere altri significati reconditi oltre a “giù le mani dalla piccola brutta commessa del distributore di benzina”.

Ma la difesa di Adrian sembrò confermare che in effetti il messaggio principale era stato questo, poiché mi arrivarono alle orecchie le parole “affascinante” e “libero arbitrio” e, infine, in modo chiaro, “non smetterò di corteggiarla perché le cose non stanno assolutamente come credi”.

Ci fu un silenzio frustrato, e poi Arturo chiese con chiarezza, dal nulla, “C’è il tuo zampino in quello che ho trovato sotto il cespuglio di more?”

Mi arresi alla curiosità e alzai la testa per guardarli. Adrian appariva sorpreso, inorridito e… ferito.

“Dio e Dea, Signore e Signora, NO, Arturo.” E poi fece una cosa curiosa. Una cosa che cementificò la sua identità dentro di me per sempre. Si inginocchiò, abbassò la testa e scoprì il collo. Proprio lì vicino al freezer delle birre, a due metri dalla macchina degli Slurpee. Nel fare questo, il suo gomito colpì lo scaffale di Fun-Yun.

Arturo lo fissò incredulo, e quando parlò la sua voce era roca. “Alzati, Adrian.”

Adrian alzò il volto verso quell’uomo che era chiaramente un suo superiore. L’espressione che aveva in viso era sia aggressiva che sulla difensiva. “Io amo andare a letto con le donne, non sono un assassino!”

Arturo guardò altrove, incapace di guardarlo negli occhi. “Ti credo, ma devi pur sempre rispondere a Green.”

Adrian sembrava scioccato, ma annuì. Si alzò e lo seguì fuori dal dal negozio. Sentii la sua motocicletta sgasare al massimo e il rumore dei suoi pneumatici stridere contro il cemento, mentre partiva a tutto gas dal parcheggio. Pregai che arrivasse sano e sano a casa; le strade in quella zona erano piene di curve, dissestate e c’erano dei ponti ad un’unica corsia dove i camionisti non esitavano comunque a raggiungere velocità pericolose. Dissi la mia preghiera, ma poi mi chiesi chi avrebbe ascoltato una preghiera per una creatura della notte.